Il progetto architettonico illustrato è nato da una richiesta rivoltami da una associazione culturale attiva in territorio toscano. L’occasione per sviluppare l’ambizioso progetto mi è stata data in sede di tesi, al termine del mio percorso di studi in architettura. Il progetto purtroppo, come spesso accade, non è mai stato realizzato. Rimane comunque la ricerca svolta in due ambiti per me molto importanti, quello musicale e architettonico, e la speranza che il progetto posso riprendere in un futuro dalle condizioni più favorevoli.
Come detto, quella rivoltami dall’associazione è stata una richiesta concreta di dare forma e attuazione alle tante riflessioni che da anni si avvicendano nella mia testa. Si può dire quindi che il progetto di tesi scaturisce da molteplici esperienze e fattori riconducibili, se vogliamo, a due urgenze:
la prima di carattere prettamente intellettuale, legata all’esperienza personale relativa alle due discipline che da anni mi appassionano e ai rapporti tra loro intercorrenti;
la seconda di carattere più concreto, legata all’esperienza di musicista/ascoltatore (in entrambi i casi fruitore, con ruoli diversi, di spazi per attività concertistiche) e allievo/insegnante (fruitore di luoghi di insegnamento e scambio musicale e, più in generale, culturale).
Da un’attenta analisi, le due cose non risultano necessariamente correlate, bensì piuttosto indipendenti. Le relazioni che possono verificarsi tra le due materie – pensiamo, ad esempio, alle regole compositive, ai rapporti geometrico-matematici utilizzati come procedimenti compositivi – prescindono ovviamente dalle destinazioni d’uso dell’opera architettonica. La letteratura al riguardo è ampia e nota.
Rapporti numerici tra musica e architettura venivano utilizzati già nell’antica Grecia e periodicamente sono ricomparsi nella storia delle due discipline. Da Vitruvio, passando per Alberti e Palladio, fino ad
arrivare a Xenakis e alla contemporanea Hadid (per citare i più noti), procedimenti matematici, basati spesso su teorie legate alla sezione aurea, venivano utilizzati per assicurare la perfetta armonia della composizione.
Si potrebbe parlare lungamente della questione inerente la sezione aurea e al conseguente scambio di terminologia e criteri compositivi tra musica e architettura. Si preferisce evitare, in questa sede, una critica approfondita dell’evoluzione dei concetti matematici e geometrici (proporzione, simmetria) nella storia dell’architettura e una valutazione dell’efficacia delle relazioni che spesso si sono volute cercare tra le due
materie su un piano strettamente tecnico e procedimentale.
Ci si limita a rimarcare quei sentori che si stanno facendo largo nella situazione contemporanea. Spesso il rapporto tra musica e architettura è risultato forzato e didascalico e probabilmente oggi il vero
legame tra le due discipline si può rintracciare nell’approccio. Ad una comune visione novecentesca di opera come prodotto compiuto, creazione individuale (visione avanguardista, ultima ricerca di un’opera d’arte universale) si avvicenda oggi, a parere di scrive, una comune visione che sta portando ad un’idea meno concettuale e più artigianale del prodotto sia musicale sia architettonico. In musica questa incompletezza dell’opera, questa impossibilità di racchiudere completamente l’atto creativo su un pezzo
di carta, è ben testimoniata dalla vitalità dell’esperienza jazzistica.
In architettura forse non c’è una linea di pensiero che si fa portatrice, con determinazione, di queste istanze, ma ci sono più voci che dichiarano la superiorità e compiutezza dell’opera collettiva e dinamica (la città) sui tentativi totalizzanti/onnicomprensivi dei singoli architetti.
Tralasciando queste problematiche, che porterebbero il discorso troppo lontano, si passa ad illustrare brevemente la situazione attuale delle strutture per la musica in contesti di piccole realtà e generi cosiddetti “di nicchia”.
STRUTTURE PENSATE PER LA MUSICA COLTA NELLA CONTEMPORANEITA’: LA SITUAZIONE
ATTUALE NELL’AMBITO TIPOLOGICO DEI PICCOLI AUDITORIUM E LE ESIGENZE DI
FLESSIBILITÀ
Gli scenari musicali che si presentano oggi ai nostri occhi sono variegati e complessi. E’ molto difficile definire cosa sia esattamente la musica cosiddetta colta (o altrimenti detta complessa).
La difficoltà è dovuta anche alla scarsa attenzione che oggi poniamo verso il prodotto artistico contemporaneo, per via del parallelo crescente interesse che, a partire dal novecento, si è riservato al passato. Indubbiamente è essenziale dare al passato il giusto valore e la funzione di stimolo per il presente (e non sterile ricordo). Tuttavia, questa scrupolosa attenzione, conoscenza e studio riservate all’opera del passato, che in ambito musicale si esplica, come ricordato, nell’ascolto di musica datata (abitudine che costituisce sostanzialmente una novità nella nostra storia culturale) stride con la quasi
completa ignoranza dell’opera prodotta dalla nostra generazione (riferendosi in ambito musicale, come ricordato, alla musica colta).
Tralasciando in questa sede il dibattito, peraltro corposo, sull’effettiva necessità di differenziazione qualitativa tra musica colta e musica di consumo (a parere di molti, l’espressione della musica contemporanea è quella continuamente imposta dal mercato), si pone evidentemente il problema di quella fetta (magari marginale) di musica, che ci piace continuare a definire “colta” (cercando di rendere la categoria meno restrittiva possibile) che non trova la giusta attenzione nella società attuale. Se non
possiamo definire con certezza cosa significa oggi “musica di qualità”, sicuramente possiamo affermare che quella colta e di consumo sono due espressioni delle attuali esperienze musicali, e quindi si dovrebbe assicurare ad entrambe le stesse opportunità di esplicazione (e di conseguenza gli spazi adatti). Se la fruizione della musica pop prevede determinate esigenze di ascolto, ampiamente assicurate sia nell’ambito dei grandi eventi (concerti in stadi, forum ecc…) che dei piccoli (pub, locali, discoteche ecc..),
nell’ambito colto le più complesse esigenze di fruizione non sempre sono assicurate.
Nell’ambito delle grandi manifestazioni, nelle grandi realtà, si è prodotto i maggiori e più sofisticati teatri, auditorium e centri delle arti. Lusso che raramente si possono concedere i centri medio-piccoli o, più in generale, tutte quelle realtà territoriali-urbane e sociali più marginali e periferiche. Va precisato, inoltre, che già negli stessi grandi teatri non sempre le condizioni di ascolto sono ottimali, o comunque la qualità di fruizione non viene posta come obiettivo primario.
La scelta dello spazio in genere non segue, come ci si aspetterebbe, da meditate considerazioni sul rapporto tra spazio e linguaggio musicale ma, più realisticamente, dalla valutazione della capienza dello spazio stesso (per conseguire il principale degli obiettivi: il maggiore incasso possibile). Ne consegue che una sala per la musica da camera viene considerata piccola se contiene sei/settecento posti (rispetto ai
cento/duecento di qualche secolo fa). E’ evidente la discrepanza tra un’esigenza che sta cambiando con il passare del tempo (la sempre più pressante richiesta di spazi più grandi per accogliere pubblico maggiore) e la prassi musicale di una tipologia di musica nata diversi secoli fa, che fa dell’ambito “cameristico” la sua caratteristica principale (la questione non va considerata esclusivamente da un punto di vista fisico/acustico: il suono di un quartetto d’archi, per esempio, non è solamente il suono prodotto da soli quattro strumenti, quindi di volume molto inferiore ad un’orchestra, ma un suono che propone strutture di discorso molto complesse, che richiedono una concentrazione di ascolto molto complicata da ottenere in ambienti vasti). Quindi la stessa musica del passato, tanto “amata” oggi, non ha sempre la giusta cornice atta a valorizzarla.
E’ piuttosto semplice immaginare a questo punto le difficoltà che può incontrare un musicista che produce musica contemporanea, trovandosi spesso ad interagire con spazialità non congruenti alla propria musica. La condizione ideale sarebbe quella di poter comporre musica appositamente pensata per uno spazio (approccio inoltre, a parere di chi scrive, non molto moderno, se teniamo conto delle attuali tendenze di una musica sempre più aperta, globalizzata, che vuole aprirsi, ritornare evento “collettivo” e non chiuso a determinate realtà).
Nella più fortunata delle ipotesi, l’eventualità che più frequentemente si verifica è quella di dover ideare un’opera in relazione ad un ambiente pensato a sua volta, però, per un tipo di musica diverso. Ad esempio, un compositore come Stockhausen, personalità di spicco di quella tendenza musicale che fa del controllo massimo di ogni aspetto dell’esecuzione dell’opera da parte del compositore una delle prerogative principali, ha progettato una performance per la sua opera Fresco (1971) che fosse compatibile con gli spazi della Beethovenhalle di Bonn (“committente” dell’opera, nonché teatro con pianta a ventaglio per musica tradizionale), intervenendo anche sulla “progettazione” degli spazi.
Se abbandoniamo lo scenario dei grandi teatri e ci spostiamo su quanto avviene in realtà più marginali, meno legate ai grandi eventi, la situazione appare molto più desolante.
La tendenza a concentrare la gran parte degli sforzi nella realizzazione dei grandi teatri, perseguendo la concezione quasi “sacrale” del luogo dello spettacolo, porta ad escludere una parte cospicua del territorio, caratterizzata appunto da centri medio/piccoli, da una partecipazione diffusa agli eventi artistici. Preclude, inoltre, la piena e adeguata possibilità di espressione di realtà, di livello locale, spesso di particolare originalità ed interesse. Fino al secolo scorso una tendenza ad una flessibilità che consentisse di avere un luogo adatto alle più varie esigenze culturali della comunità, si era in un certo senso affermata nel cosiddetto teatro diffuso, presente anche nei piccoli centri. Questa tendenza si è addirittura frenata, quando invece sembrava necessario e naturale che si sviluppasse e perfezionasse. Oggi, infatti, non è certo la carenza di spazi “generici” a porsi come un problema.
Riusare il patrimonio storico, per dotare il territorio di luoghi aperti allo spettacolo e alle varie attività culturali, potrebbe rappresentare una soluzione al problema della carenza di sedi e spazi deputati. Tuttavia spesso, alcuni spazi non più utilizzati (come fabbriche abbandonate o, più frequentemente in paesi come il nostro, chiese, conventi e palazzi abbandonati) che vengono fortunatamente recuperati
per altre attività, vedono soltanto cambiare sulla carta la propria destinazione d’uso, senza essere opportunamente adeguati alle nuove esigenze occorse, e senza assicurare quindi le prestazioni richieste. In breve, ci si ritrova generalmente ad ascoltare musica in spazi belli ma inadatti, dove la cornice estetica non è eguagliata come livello qualitativo da altri parametri quali l’acustica, la visibilità ecc… A riguardo, si cita, come esempio di inadeguatezza, luoghi anche prestigiosi di una città importante della cultura italiana quale dovrebbe essere Firenze. La sala Vanni, che ospita una programmazione concertistica di assoluto livello, con grande attenzione per espressioni musicali contemporanee, non ha nessun tipo di accorgimento per il controllo dell’acustica. Medesimo discorso si può fare per la limonaia di villa Strozzi (sede delle attività di Tempo Reale, l’istituto di ricerca musicale fondato da Berio, che dovrebbe essere l’equivalente italiano dell’IRCAM parigino), fino ad arrivare alle strutture destinate ad accogliere la formazione musicale, come il conservatorio Cherubini (una delle sedi, quella di Villa Favard, è ancora ingiustificatamente sprovvista di seri interventi volti a migliorare l’acustica di un luogo che vede uno squilibrio evidente tra una bellezza architettonica di indiscutibile fascino, e una inadeguatezza prestazionale in quasi la totalità dei proprio ambienti).
Le cause della scarsa attenzione che viene riservata a queste problematiche sicuramente sono molteplici e variegate. Indubbiamente alla base c’è una sostanziale, almeno apparente, mancanza di interesse da parte della collettività nel pretendere uno standard qualitativo adeguato per le attività culturali. Riguardo la musica, così Luciano Berio si esprimeva a proposito della cultura di base in Italia: “La creatività musicale
implica un dialogo, non sempre pacifico, con il pubblico. E implica, naturalmente, capacità di ascolto. Ho spesso l’impressione che a buona parte del pubblico italiano di oggi non siano stati dati i mezzi necessari per capire e per avere desiderio di capire ciò che ascolta. Che non si creino cioè le condizioni per un dialogo creativo e sensibile. Siamo forse un paese di geni ma, soprattutto oggi, siamo anche un paese culturalmente disastrato dove, per esempio, non esiste un’educazione musicale di base.”
Difficile quindi aspettarsi che si levi spontaneamente una forte richiesta da parte della massa di luoghi per determinate attività. Non segue, tuttavia, conseguenzialmente che non ci sia un effettivo bisogno di determinate attività e situazioni culturali. Si cita come esempio l’esperienza, sempre italiana, della Casa del Jazz a Roma, inaugurata nel 2005.
Il progetto si configura come un recupero e restauro di villa Osio, casale seicentesco immerso in un parco, che nel 2001 è stato confiscato alla criminalità e restituito alla collettività. Oggi la Casa del Jazz costituisce un punto di riferimento per il jazz del nostro paese, si pone come uno degli spazi più interessanti a livello europeo nella sua tipologia, e vede sempre di più crescere affluenza e interesse, in contrasto con lo scarso interesse che la tipologia musicale ha sempre riscosso in Italia. “La scommessa è quella di pensare che se manca qualcosa non è perché nessuno la vuole, o perché chi potrebbe partecipare non è in numero sufficiente a realizzarla; che spesso alla gente manca qualcosa, anche se non lo sa, e quando gliela offri allora è disponibile e la sua vita può diventare migliore.” (La Casa del Jazz a Roma, il recupero di villa Osio, sottratta alla criminalità e consegnata ai cittadini, a cura di G. Ingrao, Milano, Mondadori Electa, 2008, p. 110.)
E’ possibile dunque modificare l’approccio e offrire qualcosa di più alla collettività, tenendo sempre conto del contesto in cui si va ad operare. Realisticamente, nei centri di piccole e medie dimensioni, in particolare, si dovrà tenere presente la gestione economica del programma, dalla costruzione di uno spazio per lo spettacolo alla sua tenuta in esercizio, onde evitare un rapido fallimento dell’iniziativa. In altre parole, occorre, adeguatamente, considerare, ad esempio, il rapporto tra le dimensioni dello spazio destinato ad un’attività musicale e il numero piuttosto esiguo di pubblico. Da ciò emerge con assoluta evidenza la questione della flessibilità. In una piccola realtà si possono svolgere più manifestazioni ma non è quasi mai conseguibile, per ogni categoria di spettacolo, una autonoma redditività in grado di garantire la gestione di uno spazio indipendente e singolare.
Più realistico e fruttuoso appare promuovere l’uso da parte di più categorie e la fruizione durante l’intera giornata al fine di coinvolgere il maggior numero di utenti. Ambienti che prevedono sistemi per la variazione dello spazio, a livello plano-volumetrico e acustico, consentono di rispondere ai diversi requisiti chiesti dalle varie istanze.
AUDITORIUM TEMPORANEO PER UN’ASSOCIAZIONE MUSICALE
“ […] Voglio raccontarvi una mia recente esperienza scolastica. Il tema dato era un monastero. Partimmo dalla supposizione che fino ad oggi non fosse mai esistito nessun monastero. Io ero un eremita che aveva avuto l’idea di socializzare gli elementi, di portarli insieme in un unico luogo. Dovevamo dimenticare le parole monaco, refettorio, cappella, cella. Per due settimane non facemmo nulla. Poi una ragazza indiana disse: “Io credo che la cella sia l’elemento più importante di questa comunità e che la cella di diritto alla cappella di esistere, che la cappella dia diritto al refettorio di esistere, il refettorio tragga il suo diritto di esistere dalla cella e così pure il luogo di ritiro e i laboratori”. Anche un altro indiano […]fu d’accordo ma volle aggiungere un’altra importante constatazione e cioè che la cella deve essere uguale alla cappella, la cappella uguale al refettorio e il refettorio uguale al luogo di ritiro […].Il ragazzo più brillante del corso fece un magnifico progetto […] collocò il refettorio a mezzo miglio di distanza dal centro del monastero,
nella scia del ritiro, dicendo che era un tale onore per il ritiro essere vicino al monastero, che gli si doveva dedicare una parte importante della costruzione. Sono sicuro che se agli studenti fosse stata data prima una lista dei requisiti, alla classe non sarebbero venute idee del genere. Il nucleo originario del concetto del monastero non andò perduto, ma anzi, nel riconsiderarne lo spirito, si finì per capirlo meglio.[…]”
L. Kahn
CONCEPT
Lo spirito progettuale dell’edificio in oggetto raccoglie molto dell’esperimento kahniano.
Porsi di fronte ad un problema qual è la progettazione di un auditorium temporaneo presupponendo una sorta di tabula rasa di schemi come base di partenza, può essere determinante: non con l’obiettivo di creare necessariamente un’idea completamente nuova della tipologia in oggetto quanto per sintetizzare le esperienze e suggestioni che inevitabilmente ci portiamo dietro.
Cercare una gerarchia degli spazi e identificare un luogo fulcro che diventi il centro del progetto, si rivela particolarmente fondamentale nella progettazione di uno spazio flessibile, che rischia di perdersi nella frammentazione degli elementi progettuali.
Alla base del concept c’è una riflessione profonda sul significato di luogo per la musica.
Andando oltre le ovvie differenze tra grande teatro, piccolo auditorium, spazio temporaneo per spettacoli, spazio per incontri e ricerca musicali, è possibile appunto fare una riflessione comune.
Il momento culminante di ogni attività collettiva inerente la musica è il momento dello stare insieme, inteso come confronto tra allievo e insegnante, come scambio di idee tra musicisti con esperienze e ricerche musicali diverse, come interazione reciproca, basata su sensazioni e input, tra pubblico e musicisti.
Il principio progettuale che sta alla base del padiglione/auditorium è il seguente: avere un luogo “speciale”, simbolicamente rimarcato, per fungere come luogo dell’edificio, attorno al quale si sviluppa una struttura semplice e sofisticata allo stesso tempo, che si ripete modulare, atta a soddisfare tutte quelle esigenze di cui uno spazio di questo tipo necessita.
La flessibilità, che, per quanto inerisce lo spazio, si è ricercata in ogni fase del progetto come caratteristica importante da raggiungere, diventa un principio fondamentale che si può intendere più in generale come modus operandi della ricerca.
Nella definizione di quelle esigenze che un progetto di questo tipo si pone l’obiettivo di soddisfare, determinante per chi scrive è stato l’esperienza di operato all’interno dell’Associazione AdLib e di confronto con i colleghi musicisti. Le esigenze di AdLib possono essere viste come le esigenze della maggior parte delle piccole associazioni culturali del nostro territorio che hanno come obiettivo quello della divulgazione della cultura musicale.
Il progetto di seguito presentato con alcune immagini, per quanto inerisce programma funzionale, dimensioni, scelte tipologiche e prestazionali, tenta di sintetizzare le istanze emerse, frutto di questa collaborazione.
Per ulteriori approfondimenti sull’auditorium, contattami qui: http://nazarenocaputo.com/contact/




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